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28 febbraio 2014

Intervista alla rivista "il Fumetto" parte 1a

In occasione della manifestazione Lucca Comics&Games dello scorso anno è uscita sulla rivista "il Fumetto" organo ufficiale dell'ANAFI (Associazione Nazionale Amici del Fumetto e dell'Illustrazione), un'intervista piuttosto ponderosa ed esaustiva, e per questo divisa in due parti, per merito sia della competenza che per la professionalità di uno dei suoi fondatori, l'amico Luigi Marcianò che qui ringrazio pubblicamente.

Non si offenderà se partirò direttamente dall'intervista, ho tolto il suo brillante e lusinghiero "cappello" ma, per non smentire la mia idiosincrasia all'autocelebrazione, ho preferito lasciarla sulle pagine della rivista e alla sola lettura degli associati.
Spero che non me ne voglia, ma so che sorriderà e scuoterà leggermente la testa per questo.

Luigi che ci vuoi fa', so' fatto così.               

  


Sono passati, se non erro, trentacinque anni dal tuo debutto nel campo fumettistico. Come ricordi quei momenti? Eri consapevole di raggiungere la notorietà che oggi contraddistingue il tuo lavoro? Se sì, quali erano gli elementi che te lo facevano pensare? 

Risposta: Se il debutto viene fatto coincidere con il primo lavoro pagato, forse siamo intorno ai 35 anni, altrimenti se prendiamo in considerazione la prima uscita su “Hidrogeno”, ahimè sono molti di più, ma non ci contenderemo certo le cifre.
Ero comunque molto giovane e non avevo la più pallida idea di dove sarei andato, quale direzione avrei preso (ed in effetti ho avuto diverse esperienze) e che cosa avrei fatto, tra l’altro non immaginavo neanche che sarei diventato fumettista.
Certo che ricordo la soddisfazione di vedere “stampate” le mie cose, una piccola consacrazione, pur nella consapevolezza delle ingenuità che mostravano i miei disegni.
Al tempo non avrei certo pensato di arrivare dove sono adesso, ammesso che sia arrivato da qualche parte. Ma a dire la verità, allora come oggi, a me piaceva e divertiva fare le cose che mi appassionano tuttora, iniziare nuovi progetti, accettare le sfide, insomma, cambiare per crescere.



Credo di aver letto da qualche parte che la tua naturale e primaria tendenza, più che verso i fumetti, fosse verso la pittura, la grafica pubblicitaria e la moda. Me ne vuoi parlare?. Hai fatto degli studi specifici al proposito?

R: No, non ho fatto studi artistici, mi sono diplomato come perito meccanico e successivamente laureato all’I.S.I.A. (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) di Firenze, come industrial design. La passione per il disegno e la pittura però ci sono sempre stati per cui, oltre a disegnare in ogni occasione, frequentai anche dei corsi di pittura presso un pittore che mi avvicinò sia all’arte che alle tecniche pittoriche, realizzai qualche mostra seguendo la “corrente “ dell’artista con la sua “Renaissance du cube-futurisme”, e facendomi influenzare, come ogni allievo, dal fascino e dallo stile del maestro, fu un periodo formativo importante.
Tuttavia non ho mai abbandonato il fumetto.



Come è entrato il fumetto nella tua vita? Sei stato, e lo sei ancora, un lettore di fumetti? Quali erano allora e quali sono adesso i fumetti che ti attraevano maggiormente e perché?

R: Il fumetto negli anni 60-70 era un protagonista assoluto della vita dei ragazzi, avevamo programmi televisivi circoscritti appunto alla “TV dei ragazzi” (mezz’ora al giorno), il cinema a cadenza settimanale, per cui il fumetto diventava uno svago tanto appetibile quanto alla nostra portata, i personaggi erano comuni ed il passa parola tra di noi sulla “scoperta” di nuovi eroi o di nuovi albi era all’ordine del giorno. Qualcosa di totalmente inimmaginabile adesso, tanto ci coinvolgeva e permeava la nostra vita.
In quel periodo divoravo ogni cosa mi passasse tra le mani, ma ho sempre avuto una propensione per i fumetto realistico, per cui pur passando da Geppo, Soldino, Topolino e Nonna Belarda, i più amati sono stati Pecos Bill, il Monello Jet, Rin Tin Tin, il Giornalino, l’Intrepido ed il Corriere dei Piccoli, il mio preferito.
Oggi leggo fumetti solo saltuariamente, direi nessun periodico e qualche graphic –novel, e quelli che acquisto sono generalmente a titolo di documentazione professionale.

Ci sono stati degli autori che, per qualche motivo, ti hanno stimolato ad intraprendere la professione del disegnatore di fumetti? Se sì, c'è qualcuno tra questi che ha influenzato, in qualche modo, il tuo stile grafico?

R:Non so se sia esistito un prima o un dopo nella presa di coscienza di fare questo lavoro, non credo, ma se c’è stato non lo ricordo.
In quegli anni, per un provinciale quale ero io, ma non credo che per gli altri fosse molto diverso, quella del “fumettista” non era una professione da prendere il considerazione, ad un ragazzo al quale si chiedesse cosa voleva fare da grande le risposte più comuni,  magari anche per convenzione,erano: l’ingegnere (la mia), il dottore, l’astronauta, talvolta il cow-boy, neanche il calciatore era contemplato, pensate un po’ a che anni luce dall’oggi.
A questo proposito, mi viene invece da pensare ad una serie di concatenazioni che sono scaturite, alla fine, nell’idea quasi scontata che il mio futuro fosse quello di fare il fumettista e tanto più questa idea si faceva concreta tanto, in un primo momento, ne sono fuggito preferendo fare altro.
Detto questo però, devi pensare che il disegno per me è sempre stato una cosa molto naturale e che ho vissuto come un regalo fatto da qualcuno che non si è mai ringraziato abbastanza, e questa condizione ha fatto sì che nel momento stesso in cui leggevo un fumetto, desiderassi automaticamente realizzarne uno anch‘io, cosa che poi ho cominciato a fare.
Ma lo vivevo come un semplice divertimento.
Fin dall’inizio ho cominciato a “riconoscere” ed apprezzare un disegnatore piuttosto che un altro, andare a cercarli per carpirne i segreti, la lista sarebbe lunghissima e tutt’oggi è una pratica che non ho smesso, fare l’elenco sarebbe assurdo e noioso, ma mi fa piacere ricordare alcuni “coup de coeur”, non so quanto importanti, ma sicuramente significativi: il Ticci scoperto su “Vendetta Indiana”, Hermann in BN sul Corrierino con “Comanche”, Jean Giraud ed il suo Blueberry di “Fort Navajo”, Magnus de “Lo sconosciuto” scoperto su “Poche ore all’alba”, Sienkiewicz di “Elektra Assassin”, il Mignola di “Gotham by Gaslight”, Frederic Bézian di “Chien rouge, chien noir”.
Quanto questo abbia condizionato il mio stile, fate un po’ voi.

Al grande pubblico ti sei proposto con la tua collaborazione alla rivista Fox Trot. Come ricordi quell'esperienza?

R: La mia non era una semplice collaborazione, io ero l’editore insieme a Toninelli e Di Pietrantonio. Che poi quella esperienza bellissima mi abbia fatto conoscere al grande pubblico, considerando le quantità delle copie vendute, non saprei, di sicuro mi fece conoscere ed apprezzare in Bonelli, visto che Toninelli, allora sceneggiatore di Zagor, portava sempre delle copie in redazione.
L’esperienza nacque dalla conoscenza con Marcello (Toninelli n.d.r.) e nelle nottate che condividevamo insieme a ragionare sulle nostre idee, all’epoca vivevamo a Milano e lavoravo per uno stilista di moda (era “la Milano da bere”, forse qualcuno se la ricorda ancora), e lui scriveva le sue tavole di Zagor. Coinvolgemmo anche il Di Pietrantonio che iniziò con noi questa avventura durata cinque numeri di un magazine (era il periodo delle riviste d’autore), che nei nostri intenti voleva coniugare la qualità del disegno con la popolarità di certe tematiche avventurose.
Avemmo anche la sfrontatezza e l’incoscienza di farlo uscire pagandolo di tasca nostra, le fumetterie non esistevano ancora e l’unica diffusione era perciò il circuito delle edicole.
Fu un’esperienza molto bella, piena di intuizioni, progetti, nottate ed entusiasmo, eravamo pieni di energie, fiducia e convinzioni nelle nostre idee, un periodo naif per certi versi ma al tempo stesso educativo.
Uscimmo anche con “Fritto Misto” la –prima rivista umoristica in scatola- un esperimento ed una trovata, ma nessuno se lo ricorda più.




Il tuo arrivo nello staff di disegnatori di Nathan Never, se non erro, è praticamente contemporaneo alla tua esperienza con Fox Trot. Vuoi dirmi come ci sei arrivato e cosa ha significato per te entrare alla Bonelli?

R: No, non è contemporaneo, è di pochi anni dopo.
Ma è sicuramente attraverso “Foxtrot!” che conobbi il trio dei sardi Medda, Serra e Vigna (e durante il nostro primo incontro c’era anche Vanna Vinci), venendo in continente per proporre le loro cose e, avendoci conosciuto proprio sulle pagine della rivista, contattarono prima noi per avere dei consigli su come muoversi, e in quell’occasione Marcello gli dette delle dritte per presentarsi in Bonelli.
Fu soltanto poco dopo, quando successivamente a qualche albo realizzato per la casa editrice di via Buonarroti, gli venne approvata la serie “fantascientifica” che allora si chiamava Nathan Nemo, che io andai a parlare con Antonio Serra in un ristorante che adesso non esiste più, parlammo del personaggio, mi descrisse le atmosfere e le tematiche della serie insomma, mi convinse.
Mi consegnò le pagine di sceneggiatura delle tavole di prova, il seguito è noto. 
Io in quel periodo ero “design coordinator” di una multinazionale americana, un bel lavoro e ben pagato, la scelta non fu facile ma, a distanza di molti anni, non rimpiango di avere scelto la Bonelli, e a questo proposito ricordo l’incontro con Decio Canzio che, come un padre timoroso mi mise in guardia sulle imprevedibilità e le incertezze della libera professione, e per questo lo ringrazio e lo ricordo con grande affetto.
Feci la mia scelta.

Guardando la tua produzione si nota una grande ecletticità nell'affrontare generi narrativi molto diversi tra loro. Vorrei sapere se hai un genere, in particolare, che preferisci affrontare o no? (qui, ad esempio, potresti parlare, non solo di Nathan Never, ma anche  di tuoi altri lavori come Maschere senza luce oppure Il Demone nell'anima o Il Buio alle spalle o ancora Moonlight Blues tutti lavori che spaziano dalla fantascienza, al noir, al cyber, ecc.)

R: L’ecletticità è una mia cifra distintiva che scaturisce dalla necessità di cambiare, io sono uno che tende ad annoiarsi e, per quanto si faccia un lavoro interessante, io riesco ad annoiarmi anche facendo questo, per cui diventa tanto naturale quanto necessario intraprendere nuovi percorsi, allontanarsi dai sentieri battuti per addentrarsi in progetti nuovi, con nuove tematiche, nuovi personaggi, nuovi contesti e, perché no, magari anche cambiando un po’ lo stile di rappresentazione in funzione di ciò che si vuole raccontare.
Nascono così “Il demone nell’anima” una storia con atmosfere steampunk, quando lo steampunk dal punto di vista fumettistico non era così sfruttato, “Maschere” una sorta di racconto “di formazione” che si tinge dei colori della tragedia (nella prima versione) ma che dona una sorta di “speranza nel futuro” (nella seconda versione rivisitata ed ampliata),“Il buio alle spalle” un racconto dalle tematiche cyberpunk, oppure “Moonlight Blues” dove, nelle atmosfere in bianco e nero e grigio delle metropoli americane degli anni ’40, cerco di appagare la mia passione per il jazz con un racconto dalle tinte “noir”.
Per finire con la tetralogia “Hasta la victoria!”, dove attraverso le avventure del protagonista e con la convivenza di personaggi dell’immaginazione mischiati a personaggi reali, cerco di raccontare la rivoluzione cubana.




Non ricordo quale disegnatore avesse detto che ogni qualvolta inizia un lavoro, per lui è come se si aprisse una porta su un'altra realtà. Tu che tipo di sensazioni provi quando cominci a disegnare una storia?

R: Be’, mi pare sia un’affermazione condivisibile, per quanto per entrare in un'altra “realtà” questa, per realizzarla al meglio, va conosciuta abbastanza bene, e bisogna cioè affrontarla con l’atteggiamento giusto.
Mi succede un po’ come quando devo scegliere un libro per la lettura (ne ho sempre più d’uno che mi aspettano nella libreria di casa), devo essere nello stato d’animo adatto per potermi cimentare nella lettura di un romanzo di cui, se l’ho acquistato, conosco tematiche e caratteristiche, finendo spesso per non toccare certi libri per mesi, addirittura per anni, e tutto questo se il momento attuale “non lo richiede”.
Realizzare una storia ed “aprire” quella meravigliosa porta attraverso la quale devi raccontarla, vuol dire conoscere gli spazi dove devi muoverti, per realizzare la serie “cubana” ad esempio, ho navigato per mesi su internet, letto biografie e romanzi e sono finito per andare direttamente a Cuba per conoscerla personalmente, una specie di metodo Strasberg per realizzare un fumetto, ma non credo che sia una cosa così originale.
E quando inizi una storia (ma oramai mi succede soltanto con quelle che mi scrivo da solo), non solo è un viaggio dentro al panorama che mi sono scelto, ma è anche un meraviglioso viaggio dentro noi stessi e sta diventando ogni giorno di più una pratica irrinunciabile.

Scorrendo la tua produzione si evidenzia una variegata collaborazione con molti sceneggiatori. Hai un motivo particolare per apprezzarne uno su tutti? So, ad esempio, che c'è stata un'ottima intesa con Medda. Cosa puoi dirmi al proposito? Quali differenze trovi a sviluppare sceneggiature altrui e lavorare come autore completo?

R:La mia collaborazione con molti sceneggiatori è dovuta principalmente al fatto che, quando si diventa capitani di “lungo corso” come il sottoscritto, inevitabilmente si finisce per lavorare con molte persone, diciamo che è una caratteristica d’anzianità, più che di variegata scelta.
Comunque, anche se so che potrei essere accusato di essere diplomatico, in tutta sincerità non ho mai avuto uno sceneggiatore con il quale mi sono trovato male, dovresti fare la domanda inversa a loro, questa sì mi incuriosirebbe.
Con Michele Medda abbiamo condiviso molte storie ed anche un progetto, quel “Digitus Dei” che un paio d’anni fa è sbarcato anche in Francia. Con Michele abbiamo molti punti in comune, idee e visioni condivise e questo facilita non poco i nostri rapporti, più volte lo stesso Michele mi ha telefonato dicendomi: “Stefano, ho una storia per te!”, e questo è molto bello, specialmente quando attraverso le parole interpeti espressamente il pensiero di un altro. Ma, ad esempio, la mia ultima esperienza con uno sceneggiatore, e parlo di Laurent Galandon con il quale ho realizzato per Dargaud la “Venus du Dahomey”, pur avendo una lingua che ci divideva, ti garantisco che non su una sola vignetta dei miei storyboard ha mai obiettato qualcosa, andava sempre tutto molto bene.
Sarà che sono autore anch’io e conosco il valore delle parole, ma è vero anche che ho sempre anteposto la “narrazione” della storia sacrificando il mio disegno piuttosto che il contrario, un fumetto si nutre della storia e la amplifica con il disegno, ma al di là delle relative funzioni di reciprocità, un disegno non salva mai una pessima storia.



È indubbio che nel vostro lavoro gli elementi indispensabili siano l'inventiva, l'ispirazione, la tecnica e ci metterei, anche la fatica. Secondo te, in che percentuale ognuno subentra nella costruzione di una storia?

R:Varia a secondo degli stati d’animo con cui ti siedi al tavolo di lavoro, e del tipo di lavoro che devi fare, noi non siamo “artisti” colti dall’ispirazione sulla strada di Damasco, ma professionisti che lavorano su progetti con valenza creativa, per cui ci sono giorni che hai i bioritmi alterati e che invece devi fare cose che non faresti ed in questo contesti le percentuali variano a seconda dell’umore, e siccome io sono uno che non ha mai avuto l’abitudine (o la pazienza) di aspettare i momenti propizi, mi siedo e faccio, e a volte è faticoso … ma cerco di lavorare lo stesso.
Lo so, non è un metodo da artista, ed infatti io non lo sono, non ne ho proprio il DNA.
In ultima analisi, nei momenti meno entusiasmanti  per la professione, diciamo che la fatica è la cosa che pesa di più, e che a fronte di questa si lavora maggiormente di mestiere (leggi: tecnica) lasciando minori spazi per ispirazione e inventiva, i colleghi più bravi sono quelli che riescono a mascherare questi momenti di “defiance” senza che nessuno se ne accorga.
Io, ad esempio, non ne sono capace.

Da alcuni anni, ormai, lavori in maniera costante per il mercato francese. Ti chiedo:
a)  Quando e come hai iniziato a lavorare per la Francia?

Se si escludono le storie di Nathan Never pubblicate da Glenat a metà degli anni ’90, come autore ho iniziato con “Il Demone nell’anima” pubblicato dalle Editions USA nel 1999.



b)  Quali sono le differenze sia tecniche che di rapporto editoriale che esistono tra la Francia e la nostra editoria?

Differenze tecniche, se si esclude l’uso sistematico del colore e le differenze di formato delle pagine, non ce ne sono, semmai è richiesta una maggiore creatività verso la “mise in page” e cioè la disposizione delle vignette all’interno della pagina, essendo in quantità superiori al formato italiano poiché in relazione alla sua ampiezza, è richiesta una maggiore perizia.
Il rapporto editoriale, parlando del mercato “mainstream” è sostanzialmente diverso, sia per quello che riguarda il rapporto con gli autori, che è di tipo progettuale e non legato da continuità temporali, nel senso che se si accetta un progetto (di uno o più albi) si rimane legati alla casa editrice solo per la durata della serie/episodi (a meno di contratti “ad personam” o per legami con i characters), oltre che a differenze di pagamento che è sì sempre legato ad un prezzo a pagina, ma che deve essere sempre integrato con le relative royalties legate alle vendite degli albi.

c)  È più facile o più difficoltoso lavorare ad un graphic novel o su un personaggio seriale (ad esempio Nathan Never)?

Non è una questione di facile o difficile, e per quanto mi riguarda è sempre una problema d’intensità, se sono calato emotivamente in quello che faccio non esistono nessun tipo di differenze. Il fatto è che sto diventando sempre più esigente riguardo alle cose che realizzo o voglio realizzare, ho alzato l’asticella delle richieste verso me stesso, ed è questo aumento di livello che mi complica la vita.

d)  Pensi di continuare a lavorare per il mercato francese. Se sì, cosa hai in programma?

Certo che sì, è un mercato che accetta qualsiasi tipo di proposta, ha un pubblico aperto agli argomenti più svariati, ed è un medium assai considerato all’interno dell’universo culturale, e questo per un autore è molto gratificante. C’è da anche dire che la maggior parte delle cose che ho fatto sono state prodotte prima dai francesi e solo successivamente sono state pubblicate in Italia, questo la dice lunga su certe dinamiche editoriali e sulla mia naturale propensione a proporre idee per quel mercato.
Programmi ed idee sono l’unica cosa che ho in abbondanza, a volte è la tempistica delle cose da fare che si complica cammin facendo, comunque ho una nuova tetralogia di ambientazione storica in “stand-by” da qualche editore in attesa di approvazione, una serie che difficilmente vedrà la luce, visto il momento contingente di mercato e la complessità della mia proposta. Poi ho una nuova graphic-novel da realizzare da scrivere e forse, ma ancora non so quando, la ripresa di Nero Maccanti, il personaggio protagonista di “Hasta la victoria!”.
Ah, quasi dimenticavo, con Laurent Galandon stiamo progettando un one-shot piuttosto corposo da proporre a qualche editore, una specie di western, genere che adoro ma che non ho mai avuto la possibilità di realizzare.


Continua...



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