In occasione della manifestazione Lucca Comics&Games dello scorso anno è uscita sulla rivista "il Fumetto" organo ufficiale dell'ANAFI (Associazione Nazionale Amici del Fumetto e dell'Illustrazione), un'intervista piuttosto ponderosa ed esaustiva, e per questo divisa in due parti, per merito sia della competenza che per la professionalità di uno dei suoi fondatori, l'amico Luigi Marcianò che qui ringrazio pubblicamente.
Non si offenderà se partirò direttamente dall'intervista, ho tolto il suo brillante e lusinghiero "cappello" ma, per non smentire la mia idiosincrasia all'autocelebrazione, ho preferito lasciarla sulle pagine della rivista e alla sola lettura degli associati.
Spero che non me ne voglia, ma so che sorriderà e scuoterà leggermente la testa per questo.
Luigi che ci vuoi fa', so' fatto così.
Non si offenderà se partirò direttamente dall'intervista, ho tolto il suo brillante e lusinghiero "cappello" ma, per non smentire la mia idiosincrasia all'autocelebrazione, ho preferito lasciarla sulle pagine della rivista e alla sola lettura degli associati.
Spero che non me ne voglia, ma so che sorriderà e scuoterà leggermente la testa per questo.
Luigi che ci vuoi fa', so' fatto così.
Sono passati, se non erro, trentacinque anni
dal tuo debutto nel campo fumettistico. Come ricordi quei momenti? Eri
consapevole di raggiungere la notorietà che oggi contraddistingue il tuo lavoro?
Se sì, quali erano gli elementi che te lo facevano pensare?
Risposta: Se il debutto viene fatto coincidere con il primo lavoro
pagato, forse siamo intorno ai 35 anni, altrimenti se prendiamo in
considerazione la prima uscita su “Hidrogeno”, ahimè sono molti di più, ma non
ci contenderemo certo le cifre.
Ero comunque molto
giovane e non avevo la più pallida idea di dove sarei andato, quale direzione
avrei preso (ed in effetti ho avuto diverse esperienze) e che cosa avrei fatto,
tra l’altro non immaginavo neanche che sarei diventato fumettista.
Certo che ricordo la
soddisfazione di vedere “stampate” le mie cose, una piccola consacrazione, pur
nella consapevolezza delle ingenuità che mostravano i miei disegni.
Al tempo non avrei
certo pensato di arrivare dove sono adesso, ammesso che sia arrivato da qualche
parte. Ma a dire la verità, allora come oggi, a me piaceva e divertiva fare le
cose che mi appassionano tuttora, iniziare nuovi progetti, accettare le sfide, insomma,
cambiare per crescere.
Credo di aver letto da qualche parte che la
tua naturale e primaria tendenza, più che verso i fumetti, fosse verso la
pittura, la grafica pubblicitaria e la moda. Me ne vuoi parlare?. Hai fatto degli studi
specifici al proposito?
R: No, non ho fatto studi artistici, mi sono diplomato come
perito meccanico e successivamente laureato all’I.S.I.A. (Istituto Superiore
per le Industrie Artistiche) di Firenze, come industrial design. La passione
per il disegno e la pittura però ci sono sempre stati per cui, oltre a
disegnare in ogni occasione, frequentai anche dei corsi di pittura presso un
pittore che mi avvicinò sia all’arte che alle tecniche pittoriche, realizzai
qualche mostra seguendo la “corrente “ dell’artista con la sua “Renaissance du cube-futurisme”, e facendomi
influenzare, come ogni allievo, dal fascino e dallo stile del maestro, fu un periodo formativo importante.
Come è entrato il fumetto nella tua vita?
Sei stato, e lo sei ancora, un lettore di fumetti? Quali erano allora e quali
sono adesso i fumetti che ti attraevano maggiormente e perché?
R: Il fumetto negli anni 60-70 era un protagonista assoluto
della vita dei ragazzi, avevamo programmi televisivi circoscritti appunto alla
“TV dei ragazzi” (mezz’ora al giorno), il cinema a cadenza settimanale, per cui
il fumetto diventava uno svago tanto appetibile quanto alla nostra portata, i personaggi
erano comuni ed il passa parola tra di noi sulla “scoperta” di nuovi eroi o di
nuovi albi era all’ordine del giorno. Qualcosa di totalmente inimmaginabile
adesso, tanto ci coinvolgeva e permeava la nostra vita.
In quel periodo
divoravo ogni cosa mi passasse tra le mani, ma ho sempre avuto una propensione
per i fumetto realistico, per cui pur passando da Geppo, Soldino, Topolino e
Nonna Belarda, i più amati sono stati Pecos Bill, il Monello Jet, Rin Tin Tin, il
Giornalino, l’Intrepido ed il Corriere dei Piccoli, il mio preferito.
Oggi leggo fumetti
solo saltuariamente, direi nessun periodico e qualche graphic –novel, e quelli
che acquisto sono generalmente a titolo di documentazione professionale.
Ci sono stati degli autori che, per qualche
motivo, ti hanno stimolato ad intraprendere la professione del disegnatore di
fumetti? Se sì, c'è qualcuno tra questi che ha influenzato, in qualche modo, il
tuo stile grafico?
R:Non so se sia esistito un prima o un dopo nella presa di
coscienza di fare questo lavoro, non credo, ma se c’è stato non lo ricordo.
In quegli anni, per
un provinciale quale ero io, ma non credo che per gli altri fosse molto
diverso, quella del “fumettista” non era una professione da prendere il
considerazione, ad un ragazzo al quale si chiedesse cosa voleva fare da grande
le risposte più comuni, magari anche per
convenzione,erano: l’ingegnere (la mia), il dottore, l’astronauta, talvolta il
cow-boy, neanche il calciatore era contemplato, pensate un po’ a che anni luce
dall’oggi.
A questo proposito, mi
viene invece da pensare ad una serie di concatenazioni che sono scaturite, alla
fine, nell’idea quasi scontata che il mio futuro fosse quello di fare il
fumettista e tanto più questa idea si faceva concreta tanto, in un primo
momento, ne sono fuggito preferendo fare altro.
Detto questo però, devi
pensare che il disegno per me è sempre stato una cosa molto naturale e che ho
vissuto come un regalo fatto da qualcuno che non si è mai ringraziato abbastanza,
e questa condizione ha fatto sì che nel momento stesso in cui leggevo un
fumetto, desiderassi automaticamente realizzarne uno anch‘io, cosa che poi ho
cominciato a fare.
Ma lo vivevo come un semplice
divertimento.
Fin dall’inizio ho
cominciato a “riconoscere” ed apprezzare un disegnatore piuttosto che un altro,
andare a cercarli per carpirne i segreti, la lista sarebbe lunghissima e
tutt’oggi è una pratica che non ho smesso, fare l’elenco sarebbe assurdo e
noioso, ma mi fa piacere ricordare alcuni “coup de coeur”, non so quanto
importanti, ma sicuramente significativi: il Ticci scoperto su “Vendetta
Indiana”, Hermann in BN sul Corrierino con “Comanche”, Jean Giraud ed il suo
Blueberry di “Fort Navajo”, Magnus de “Lo sconosciuto” scoperto su “Poche ore
all’alba”, Sienkiewicz di “Elektra Assassin”, il Mignola di “Gotham by
Gaslight”, Frederic Bézian di “Chien rouge, chien noir”.
Quanto questo abbia
condizionato il mio stile, fate un po’ voi.
Al grande pubblico ti sei proposto con la
tua collaborazione alla rivista Fox Trot. Come ricordi quell'esperienza?
R: La mia non era una semplice collaborazione, io ero
l’editore insieme a Toninelli e Di Pietrantonio. Che poi quella esperienza
bellissima mi abbia fatto conoscere al grande pubblico, considerando le
quantità delle copie vendute, non saprei, di sicuro mi fece conoscere ed
apprezzare in Bonelli, visto che Toninelli, allora sceneggiatore di Zagor,
portava sempre delle copie in redazione.
L’esperienza nacque
dalla conoscenza con Marcello (Toninelli n.d.r.) e nelle nottate che
condividevamo insieme a ragionare sulle nostre idee, all’epoca vivevamo a
Milano e lavoravo per uno stilista di moda (era “la Milano da bere”, forse
qualcuno se la ricorda ancora), e lui scriveva le sue tavole di Zagor. Coinvolgemmo
anche il Di Pietrantonio che iniziò con noi questa avventura durata cinque
numeri di un magazine (era il periodo delle riviste d’autore), che nei nostri
intenti voleva coniugare la qualità del disegno con la popolarità di certe
tematiche avventurose.
Avemmo anche la
sfrontatezza e l’incoscienza di farlo uscire pagandolo di tasca nostra, le
fumetterie non esistevano ancora e l’unica diffusione era perciò il circuito
delle edicole.
Fu un’esperienza
molto bella, piena di intuizioni, progetti, nottate ed entusiasmo, eravamo
pieni di energie, fiducia e convinzioni nelle nostre idee, un periodo naif per
certi versi ma al tempo stesso educativo.
Uscimmo anche con “Fritto
Misto” la –prima rivista umoristica in scatola- un esperimento ed una trovata, ma
nessuno se lo ricorda più.
Il tuo arrivo nello staff di disegnatori di
Nathan Never, se non erro, è praticamente contemporaneo alla tua esperienza con
Fox Trot. Vuoi dirmi come ci sei arrivato e cosa ha significato per te entrare
alla Bonelli?
R: No, non è contemporaneo, è di pochi anni dopo.
Ma è sicuramente
attraverso “Foxtrot!” che conobbi il trio dei sardi Medda, Serra e Vigna (e
durante il nostro primo incontro c’era anche Vanna Vinci), venendo in
continente per proporre le loro cose e, avendoci conosciuto proprio sulle
pagine della rivista, contattarono prima noi per avere dei consigli su come
muoversi, e in quell’occasione Marcello gli dette delle dritte per presentarsi
in Bonelli.
Fu soltanto poco
dopo, quando successivamente a qualche albo realizzato per la casa editrice di
via Buonarroti, gli venne approvata la serie “fantascientifica” che allora si
chiamava Nathan Nemo, che io andai a parlare con Antonio Serra in un ristorante
che adesso non esiste più, parlammo del personaggio, mi descrisse le atmosfere
e le tematiche della serie insomma, mi convinse.
Mi consegnò le pagine
di sceneggiatura delle tavole di prova, il seguito è noto.
Io in quel periodo
ero “design coordinator” di una multinazionale americana, un bel lavoro e ben
pagato, la scelta non fu facile ma, a distanza di molti anni, non rimpiango di
avere scelto la Bonelli, e a questo proposito ricordo l’incontro con Decio Canzio
che, come un padre timoroso mi mise in guardia sulle imprevedibilità e le
incertezze della libera professione, e per questo lo ringrazio e lo ricordo con
grande affetto.
Feci la mia scelta.
Guardando la tua produzione si nota una
grande ecletticità nell'affrontare generi narrativi molto diversi tra loro.
Vorrei sapere se hai un genere, in particolare, che preferisci affrontare o no?
(qui, ad esempio, potresti parlare, non solo di Nathan Never, ma anche di
tuoi altri lavori come Maschere senza
luce oppure Il Demone nell'anima
o Il Buio alle spalle o ancora Moonlight
Blues tutti lavori che spaziano
dalla fantascienza, al noir, al cyber, ecc.)
Nascono
così “Il demone nell’anima” una storia con atmosfere steampunk, quando lo steampunk
dal punto di vista fumettistico non era così sfruttato, “Maschere” una sorta di
racconto “di formazione” che si tinge dei colori della tragedia (nella prima
versione) ma che dona una sorta di “speranza nel futuro” (nella seconda
versione rivisitata ed ampliata),“Il buio alle spalle” un racconto dalle
tematiche cyberpunk, oppure “Moonlight Blues” dove, nelle atmosfere in bianco e
nero e grigio delle metropoli americane degli anni ’40, cerco di appagare la
mia passione per il jazz con un racconto dalle tinte “noir”.
Per
finire con la tetralogia “Hasta la victoria!”, dove attraverso le avventure del
protagonista e con la convivenza di personaggi dell’immaginazione mischiati a
personaggi reali, cerco di raccontare la rivoluzione cubana.
Non ricordo quale disegnatore avesse
detto che ogni qualvolta inizia un lavoro, per lui è come se si aprisse una
porta su un'altra realtà. Tu che tipo di sensazioni provi quando cominci a
disegnare una storia?
R: Be’,
mi pare sia un’affermazione condivisibile, per quanto per entrare in un'altra
“realtà” questa, per realizzarla al meglio, va conosciuta abbastanza bene, e
bisogna cioè affrontarla con l’atteggiamento giusto.
Mi
succede un po’ come quando devo scegliere un libro per la lettura (ne ho sempre
più d’uno che mi aspettano nella libreria di casa), devo essere nello stato
d’animo adatto per potermi cimentare nella lettura di un romanzo di cui, se
l’ho acquistato, conosco tematiche e caratteristiche, finendo spesso per non
toccare certi libri per mesi, addirittura per anni, e tutto questo se il
momento attuale “non lo richiede”.
Realizzare
una storia ed “aprire” quella meravigliosa porta attraverso la quale devi
raccontarla, vuol dire conoscere gli spazi dove devi muoverti, per realizzare
la serie “cubana” ad esempio, ho navigato per mesi su internet, letto biografie
e romanzi e sono finito per andare direttamente a Cuba per conoscerla
personalmente, una specie di metodo Strasberg per realizzare un fumetto, ma non
credo che sia una cosa così originale.
E
quando inizi una storia (ma oramai mi succede soltanto con quelle che mi scrivo
da solo), non solo è un viaggio dentro al panorama che mi sono scelto, ma è
anche un meraviglioso viaggio dentro noi stessi e sta diventando ogni giorno di
più una pratica irrinunciabile.
Scorrendo la tua produzione si evidenzia una variegata
collaborazione con molti sceneggiatori. Hai un motivo particolare per
apprezzarne uno su tutti? So, ad esempio, che c'è stata un'ottima intesa con
Medda. Cosa puoi dirmi al proposito? Quali differenze trovi a sviluppare
sceneggiature altrui e lavorare come autore completo?
R:La
mia collaborazione con molti sceneggiatori è dovuta principalmente al fatto
che, quando si diventa capitani di “lungo corso” come il sottoscritto,
inevitabilmente si finisce per lavorare con molte persone, diciamo che è una
caratteristica d’anzianità, più che di variegata scelta.
Comunque,
anche se so che potrei essere accusato di essere diplomatico, in tutta
sincerità non ho mai avuto uno sceneggiatore con il quale mi sono trovato male,
dovresti fare la domanda inversa a loro, questa sì mi incuriosirebbe.
Con
Michele Medda abbiamo condiviso molte storie ed anche un progetto, quel
“Digitus Dei” che un paio d’anni fa è sbarcato anche in Francia. Con Michele
abbiamo molti punti in comune, idee e visioni condivise e questo facilita non
poco i nostri rapporti, più volte lo stesso Michele mi ha telefonato dicendomi:
“Stefano, ho una storia per te!”, e questo è molto bello, specialmente quando
attraverso le parole interpeti espressamente il pensiero di un altro. Ma, ad
esempio, la mia ultima esperienza con uno sceneggiatore, e parlo di Laurent Galandon
con il quale ho realizzato per Dargaud la “Venus du Dahomey”, pur avendo una
lingua che ci divideva, ti garantisco che non su una sola vignetta dei miei
storyboard ha mai obiettato qualcosa, andava sempre tutto molto bene.
Sarà
che sono autore anch’io e conosco il valore delle parole, ma è vero anche che ho
sempre anteposto la “narrazione” della storia sacrificando il mio disegno
piuttosto che il contrario, un fumetto si nutre della storia e la amplifica con
il disegno, ma al di là delle relative funzioni di reciprocità, un disegno non
salva mai una pessima storia.
È indubbio che nel vostro lavoro gli elementi indispensabili
siano l'inventiva, l'ispirazione, la tecnica e ci metterei, anche la fatica. Secondo
te, in che percentuale ognuno subentra nella costruzione di una storia?
R:Varia
a secondo degli stati d’animo con cui ti siedi al tavolo di lavoro, e del tipo
di lavoro che devi fare, noi non siamo “artisti” colti dall’ispirazione sulla
strada di Damasco, ma professionisti che lavorano su progetti con valenza
creativa, per cui ci sono giorni che hai i bioritmi alterati e che invece devi
fare cose che non faresti ed in questo contesti le percentuali variano a
seconda dell’umore, e siccome io sono uno che non ha mai avuto l’abitudine (o
la pazienza) di aspettare i momenti propizi, mi siedo e faccio, e a volte è
faticoso … ma cerco di lavorare lo stesso.
Lo
so, non è un metodo da artista, ed infatti io non lo sono, non ne ho proprio il
DNA.
In
ultima analisi, nei momenti meno entusiasmanti
per la professione, diciamo che la fatica è la cosa che pesa di più, e
che a fronte di questa si lavora maggiormente di mestiere (leggi: tecnica)
lasciando minori spazi per ispirazione e inventiva, i colleghi più bravi sono
quelli che riescono a mascherare questi momenti di “defiance” senza che nessuno
se ne accorga.
Io,
ad esempio, non ne sono capace.
Da alcuni anni, ormai, lavori in maniera costante per il
mercato francese. Ti chiedo:
a) Quando e come hai iniziato a lavorare per la
Francia?
Se
si escludono le storie di Nathan Never pubblicate da Glenat a metà degli anni
’90, come autore ho iniziato con “Il Demone nell’anima” pubblicato dalle
Editions USA nel 1999.
b) Quali sono le differenze sia tecniche che di
rapporto editoriale che esistono tra la Francia e la nostra editoria?
Differenze
tecniche, se si esclude l’uso sistematico del colore e le differenze di formato
delle pagine, non ce ne sono, semmai è richiesta una maggiore creatività verso
la “mise in page” e cioè la disposizione delle vignette all’interno della
pagina, essendo in quantità superiori al formato italiano poiché in relazione
alla sua ampiezza, è richiesta una maggiore perizia.
Il
rapporto editoriale, parlando del mercato “mainstream” è sostanzialmente
diverso, sia per quello che riguarda il rapporto con gli autori, che è di tipo
progettuale e non legato da continuità temporali, nel senso che se si accetta
un progetto (di uno o più albi) si rimane legati alla casa editrice solo per la
durata della serie/episodi (a meno di contratti “ad personam” o per legami con
i characters), oltre che a differenze di pagamento che è sì sempre legato ad un
prezzo a pagina, ma che deve essere sempre integrato con le relative royalties
legate alle vendite degli albi.
c) È più facile o più difficoltoso lavorare ad
un graphic novel o su un personaggio seriale (ad esempio Nathan Never)?
Non
è una questione di facile o difficile, e per quanto mi riguarda è sempre una problema
d’intensità, se sono calato emotivamente in quello che faccio non esistono
nessun tipo di differenze. Il fatto è che sto diventando sempre più esigente
riguardo alle cose che realizzo o voglio realizzare, ho alzato l’asticella
delle richieste verso me stesso, ed è questo aumento di livello che mi complica
la vita.
d) Pensi di continuare a lavorare per il mercato
francese. Se sì, cosa hai in programma?
Certo
che sì, è un mercato che accetta qualsiasi tipo di proposta, ha un pubblico aperto
agli argomenti più svariati, ed è un medium assai considerato all’interno
dell’universo culturale, e questo per un autore è molto gratificante. C’è da anche
dire che la maggior parte delle cose che ho fatto sono state prodotte prima dai
francesi e solo successivamente sono state pubblicate in Italia, questo la dice
lunga su certe dinamiche editoriali e sulla mia naturale propensione a proporre
idee per quel mercato.
Programmi
ed idee sono l’unica cosa che ho in abbondanza, a volte è la tempistica delle
cose da fare che si complica cammin facendo, comunque ho una nuova tetralogia di
ambientazione storica in “stand-by” da qualche editore in attesa di
approvazione, una serie che difficilmente vedrà la luce, visto il momento
contingente di mercato e la complessità della mia proposta. Poi ho una nuova
graphic-novel da realizzare da scrivere e forse, ma ancora non so quando, la
ripresa di Nero Maccanti, il personaggio protagonista di “Hasta la victoria!”.
Ah,
quasi dimenticavo, con Laurent Galandon stiamo progettando un one-shot
piuttosto corposo da proporre a qualche editore, una specie di western, genere
che adoro ma che non ho mai avuto la possibilità di realizzare.Continua...
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