topolino


10 maggio 2013

Gente perbene

Mi riprendo da un periodo congestionato di impegni giusto per non parlare di me, so che lo farò al più presto volendo scrivere delle mie ultime sortite per festival ed incontri, ma adesso devo parlare di altro.
Ho voglia di parlare di Enrico Vaime.




                                               Enrico Vaime

Ho letto praticamente tutto (o quasi di lui), almeno l'ultima sua serie di libri: Quando la rucola non c'era, I cretini non sono più quelli di una volta, Anche a costo di mentire e l'ultimo, appunto: Gente perbene.

Gli amici della mia generazione lo ricorderanno per il binomio con Italo Terzoli, di cui componeva il famoso duo Terzoli & Vaime che ha firmato tra le più belle trasmissioni televisive mai programmate a cavallo tra gli anni 60-70 e successivamente altre come Quelli della Domenica, Canzonissima, Tante scuse e Risatissima, spettacoli non conditi da un'approssimazione abborracciata ma con testi scritti, sapidi e intelligenti, in seguito anche in trasmissioni con Maurizio Costanzo sulle reti Rai e altre in programmazione su la7.

L'ho seguito per anni come conduttore di Blackout, il trentennale programma radiofonico su Radio 2 che un tempo ogni sabato mattina (adesso mi risulta infatti essere trasmessa la Domenica mattina) seguivo assiduamente, intendiamoci, mi piacevano tutti i comici che intervenivano lungo l'arco del programma (si sono alternati: Fabio Fazio, Neri Marcorè, Pierfrancesco Poggi, Simona Marchini e tanti altri) ma non potevo perdere quei cinque minuti iniziali, quelli in cui Vaime introduceva il programma ed erano sempre digressioni e considerazioni sui fatti della settimana, spaziando dal costume alla politica, al cinema e lo sport: a suo modo. 
Imperdibili.

La stima nei suoi confronti (ma non mi dipingerò mai come un fan), mi ha spinto ad andarlo a sentire a Castiglioncello qualche anno fa, ospite di un incontro a promozione del suo ultimo libro, obbligandomi così, alla fine, a fare quello che credo di avere fatto una sola volta in vita mia (e quella volta lo feci  solo per i miei genitori, non ridete, alla cantante Betty Curtis), e cioè chiedere un autografo, in quel caso portai i tre libri sopra citati per farli autografare.
Non è stata cosa da poco per me, credetemi.

Enrico Vaime è una di quelle persone (poche) con cui sono d'accordo quasi su tutto, le sue digressioni e le sue considerazioni mi trovano quasi inverosimilmente concorde in una condivisione che diventa perfino stucchevole. 
Ma tant'è.
Sarà il modo garbato e mai volgare, l'ironia attraverso la quale legge il nostro quotidiano, quel suo modo mai saccente di sottolineare con acume certe comparazioni, lo sguardo apparentemente distaccato che lascia trapelare, in un "vivi e lascia vivere" che mi affascina, una filosofia che forse non riesco ad interpretare personalmente. 

Ma l'idea stessa di parlare di lui, in modo, diciamo così "pubblico", è stata la lettura di "Gente perbene".





In questo libro, costituito da tante parentesi fatte di descrizioni di persone, fatti e circostanze, tutte attraversate dal filo della memoria, ci ho visto lo stesso sguardo con cui ho scritto il mio "Di altre storie e di altri eroi", e questa sorta di parallelismo mi è sembrato la chiave di lettura che permette di interpretare e spiegare questa mia spudorata simpatia, questo riconoscersi in qualcuno che come te ha uno sguardo corrispondente sul suo vissuto.
Magari è semplice presunzione e l'accostamento è quanto mai pretenzioso, ma il modo con cui descrive le persone che lo hanno circondato nel periodo dell'infanzia, con cui è cresciuto in un modo "normale", senza fatti sconvolgenti che ne hanno condizionato e indirizzato in modo particolare la  vita, in un trascorrere tutto sommato tranquillo e privo di eccessivi sconvolgimenti, lo trovo corrispondente.

Ecco, è questo senso di normalità che ci rende simili, questa assenza di eccezionalità che spesso per convenzione immaginiamo debba essere una condizione imprescindibile per trasformarci in autore o artista che credo me lo faccia apprezzare oltre ogni normale simpatia.
L'abbattimento della convenzione e spesso della convinzione dell'artista tutto "genio e sregolatezza" (in certi casi più millantata che reale) è un sentimento di una tale nobiltà e, per certi versi carico di una sua rivoluzionaria innovazione, che apprezzo oltre ogni limite, specialmente oggi che abbiamo fatto del nostro guscio esteriore una maschera dietro alla quale nasconderci, illudendo gli altri con artificiosi giochi di prestigio atti soltanto a depistare chi ci osserva perché, non avendo molto da dire, vogliamo per forza mostrarci per quello che vorremmo essere, spaventati spesso da quello che siamo.

Intendiamoci, la sua considerazione di gente perbene non è del tutto consolatoria, viene rivelata nelle pieghe di vite tranquille anche una meschinità e un opportunismo frutto di quei geni che avranno modo di svilupparsi in seguito, quando i giochi si faranno più "duri".
Infine mi ritrovo nei toni generali, nel periodo storico (per quanto diverso) e l'ironia con cui il narratore indulge sulle figure dei protagonisti e indica attraverso le sue pacifiche turbolenze questo suo desiderio di prendere le distanze da tutto ciò, rivelano quella inadeguatezza che lo allontana da consueti panorami per andare a scoprire chi è e cosa vuole diventare; ma tutto questo senza traumi, senza colpi di testa o sconvolgenti rivelazioni, semplicemente organizzando un pranzo in una amena località lacustre, per poi prendere l'auto, salutare tutti ed andarsene.
Simili, non c'è che dire.

Anche se io, ad esempio, non ho organizzato neanche il pranzo.





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